“Un viaggio tra gli indios”, di Tina Arrigoni

Pubblichiamo la splendida testimonianza di Tina Arrigoni, referente di Insieme si può in Brasile per il progetto a tutela degli indios della riserva di Dourados.

Negli ultimi giorni di febbraio e giugno 2015 abbiamo partecipato a due missioni umanitarie indette dall’UNIVIDA (Associazione Universitari volontari per la difesa della vita-ONG), nella Riserva di Dourados, una delle più grandi RISERVE DI INDIOS GUARANY – KAYOWA esistenti, proprio a pochi chilometri dalla grande città di Dourados.

Si tratta della seconda in assoluto per popolazione e, secondo le stesse autorità brasiliane, “espressione della più grande tragedia conosciuta da tutto il mondo che riguarda la questione indigena”.

La riserva, situata al confine con il Paraguai, fa parte del Centro omonimo, parte che in un certo senso disturba e preoccupa. Una terra di bestiame, di soia, di biodiesel. 3500 ettari per 15.000 indios. Già queste cifre ci preannunciano una situazione difficile. Qui FAME, ALCOLISMO, DROGA, VIOLENZA, DEGRADO SOCIALE fanno della Riserva una delle peggiori FAVELAS ancora oggi esistenti in Brasile.

L´arrivo tra gli Indios è stato utile e fortemente incisivo per noi. Eravamo in cinque (Tina, P. Giuliano. P. Edoardo, un assistente sociale in pensione, un insegnante di odontologia dell´Università di Santa Fé) a viaggiare su due macchine precedute da un camion stracarico di casse di indumenti e alimenti raccolti in parrocchia, e 200 coperte acquistate in fabbrica da Padre Giuliano.

A Dourados io, Tina, e P. Giuliano siamo stati ospiti di amici, gli altri componenti del gruppo soggiornavano in albergo. Abbiamo preso contatto con 4 Suore della Consolata che abitano al confine della Grande riserva già visitata nel luglio del 2014 da padre Giuliano e dagli universitari. Ad esse abbiamo affidato l’incarico di accompagnare i futuri bambini sostenuti a distanza che popolano ben 4 villaggi (aldeie).

Noi, per questo viaggio, ci siamo portati in quella piccola, di Parambizinho, che dista ben 30 Km da quella Grande. Abbiamo avuto un contatto corpo a corpo con le famiglie.

Quello che ho visto qui non l´ho visto in Africa. Quello che ho provato qui non l´ho provato in Africa: sofferenza e rabbia. Proprio così.
La aldeia (villaggio) è raggiungibile attraverso una strada di terra ai cui lati si trovano due mondi contrastanti: abbondanza e miseria; efficienza e assenteismo; campi sterminati di soia, cotone, miglio, manioca (it. Manioca, tapioca, cassava o yuca), ricchezza ottenuta con mezzi altamente meccanici e unicamente enormi distese di erba, erba, erba e sterpaglia.

Dopo km e km di questo paesaggio si apre un sentiero di un metro o poco più (l’auto passa a stento e solo fino a un certo punto, poi è necessario procedere a piedi) circondato da ambedue i lati da colonhao (colonato: condizione giuridica dei coltivatori) alto quasi 2 metri che impedisce ogni visuale, impraticabile quando piove. Questo porta alle baracche nascoste in mezzo agli alberi, a una foltissima vegetazione.

Le baracche hanno davanti, tutte o quasi, un cortile di terra rossa regno di animali e di molte pozzanghere di acqua stagnante. Le uniche case in muratura incontrate sono una scuola (forse una specie di pre-scuola-asilo-scuola dell’infanzia) che accoglie pochi bimbi al di sotto di 4 anni e una chiesetta presbiteriana di 2m x 2m.

Ci avviciniamo e scopriamo e le baracche si scoprono per come sono fatte, lamiera, cartoni, teli di plastica, materiale preso nella discarica o qua e là, spesso in cattivo stato. L`interno, è unico ambiente, e vuoto o quasi; poche stoviglie su un tavolo sgangherato e, dove ci sono, due letti tenuti insieme da corde. Un regno di umani e animali.

Alla miseria, non povertà, si accompagnano ovunque sudiciume e fognature a cielo aperto. Dappertutto bimbi, per lo più non registrati quindi ufficialmente non esistenti, buttati nella terra che giocano con animali, in particolare cani e gatti. Mi domandavo come potessero non ammalarsi.

Nel villaggio esiste una scuola indigena che dipende dal municipio ma funziona solo parzialmente. Nata nel 2004 col nome di “TENGATUI’ MARANGATU’, che significa ‘Insegnamento eterno’, potrebbe accogliere 1500 alunni, dall’asilo alla media, ma in realtà poco più della metà degli iscritti la frequenta in modo regolare. Per i più piccoli poi non c’è mai posto, causa di demotivazione o pretesto assunto volontariamente dalle madri per giustificare il loro disimpegno.

Donne siedono davanti all´abitazione, in silenzio con lo sguardo sperduto nel vuoto, o a chiacchierare; uomini sdraiati in una specie di amaca, all´ombra di un grande albero, simbolo del ‘comodismo’ (indulgenza verso se stessi) che caratterizza purtroppo anche questo popolo.

Abbiamo ricevuto un’accoglienza festosa e incontrato grande apertura, in particolare da parte delle donne. Mentre osservavo la triste realtà che mi si presentava ovunque, mi sono ricordata il mio primo incontro, circa 30 fa, con le favelas di Duas Pontes, incontro che ha dato il via al mio servizio per i poveri. Miseria anche allora ma non come questa!
Corretto, puntuale, obiettivo il pensiero delle piccole Suore della Consolata: OCCORRE INVESTIRE A LUNGO PRAZO, SULLE NUOVE GENERAZIONI, se si vuole una vita più umana, più dignitosa, più giusta. UN MONDO MIGLIORE!

Il ‘comodismo’ (indulgenza verso se stessi) alimentato ancora una volta da una falsa politica governativa di intervento e mancanza di iniziativa personale sono le cause dell`immobilismo di questa povera gente, vittima di ataviche ingiustizie. Un immobilismo ben difficile da eliminare.

Gli interventi dello Stato fatti finora non hanno mutato la situazione perché basati sul puro assistenzialismo tramite la‘Bolsa familia’ (cesta di viveri). Questo popolo, diviso in 40 gruppi o etnie, vive in uno stato indescrivibile, inimmaginabile. Persa l’identità culturale gli rimane solo quella genetica e della lingua. Il 15% delle famiglie ha problemi di alcool e di droga, di stupri e di vendita di bambini.

Le donne per nulla valorizzate con i loro figli girovagano per la città vicina chiedendo l’elemosina o raccogliendo nella spazzatura lattine ed altro. Solo gli Indios adulti, raccolti dal procacciatore di manodopera (figura losca detta “gato”) e trasportati con camion sul posto lavorano pesantemente pagati in modo irrisorio.

Per l’esteso villaggio (aldeia) vanno ubriachi e sofferenti in cerca di alcool, di rimedi, di pane. I bambini assimilano inconsapevolmente questo sistema di vita e, divenuti giovani, senza valori, senza obiettivi, molti di loro si suicidano. I più privilegiati o fortunati vanno in città a vendere miglio e manioca, a comperare prodotti alimentari e materiali di vita. Si ascrive la colpa di questo stato di cose non solo allo Stato ma anche alla frammentarietà eccessiva degli Indios. In parte è vero.

Tina Arrigoni per Insieme si può