Una donna, per le donne

Intervista a Carla Dazzi, volontaria, membro del Coordinamento e referente dei progetti ISP in Afghanistan.

Carla, quali tre parole assoceresti a Insieme si può?

Dal mio punto di vista, Insieme si può è sinonimo di speranza. La speranza che viene data agli ultimi del mondo, nel senso di quello che concretamente si può fare per dare loro un futuro.

La seconda parola che ci rappresenta è condivisione. E con questo intendo lo spirito e le esperienze che ci legano tutti, che vuol dire vivere assieme il buono e il meno buono, il bello, il brutto, le difficoltà e i successi, le tristezze e le gioie.

Io poi, se faccio parte di Insieme si può – e personalmente “l’appartenenza” non è mai scontata, non è mai banale – vuol dire per me crederci.

Come sei entrata in contatto con l’Associazione? Cos’ha fatto scoccare la “scintilla”?

La mia conoscenza di ISP è nata molto lontano, nel 1985, quando mio marito Olindo era andato in Africa, coinvolto da un collega: lavoravano all’Enel e nei magazzini avevano del materiale “da centrali”, ancora in ottimo stato, che era stato dismesso. Fu portato in Tanzania e montato da un gruppo di volontari cui Olindo si aggregò, a servizio di un progetto missionario.

Al rientro da quel viaggio, venne fatta la classica serata con le diapositive per raccontare l’esperienza. In quell’occasione stringemmo ancor di più i rapporti con Piergiorgio e gli altri di Insieme si può, che già conoscevamo perché all’epoca abitavamo a Sospirolo.

E quindi cosa successe?
Di lì a breve si decise di fare un altro viaggio in Tanzania. Tra gli altri c’erano Marilena e Gianni Triches, Giusy e Mario Fontana, che sarebbero diventati gli amici di una vita e volontari cardine di Insieme si può. Fu per me la prima esperienza, quella, e fu straordinaria. L’incontro con i bambini, l’incontro con la gente e l’emozione grandissima di queste persone che assistettero al “miracolo” della prima accensione della prima lampadina, dopo aver osservato giorni di lavori per mettere assieme e avviare quella piccola centrale.

Hai un aneddoto da raccontare di quei primi anni?

Sì, un ricordo curioso, simpatico. Olindo ed io avevamo una gatta molto bella, di razza, apprezzatissima anche nei concorsi e nelle mostre. Con quanto ricavavamo di premi che la nostra gattina si aggiudicava, sostenevamo dei progetti in Tanzania. Fece poi dei gattini, vendendo i quali poi finanziammo addirittura un asilo, sempre in Tanzania, per Padre Egidio.

Qual è attualmente il tuo impegno con l’Associazione?

Sono una volontaria, che si occupa prevalentemente di Afghanistan… Sono referente dei progetti in quel Paese, dove mi reco in visita da quasi vent’anni, e collaboro per dare vita alle iniziative di sensibilizzazione. Faccio anche parte del Coordinamento e mi metto a disposizione, per quello che riesco a fare.

Tanti parlano di donne e Afghanistan: a tuo avviso, cosa servirebbe davvero all’Afghanistan e alle donne afghane di oggi?

L’Afghanistan è al femminile: lo possono salvare solo loro, le donne. Sono convinta che la loro disastrosa condizione attuale sia il risultato di una sistematica azione che ha privato il Paese dell’istruzione e della classe dirigente. La differenza oggi, i punti di luce in Afghanistan, sono nati e cresciuti in quelle realtà, in quei gruppi e movimenti – prevalentemente di donne – che al centro hanno posto l’istruzione e l’emancipazione, i diritti. Parlo di RAWA, l’organizzazione con cui lavoriamo da sempre, ma anche di tanti altri movimenti. Magari un tempo erano ragazze e donne povere, senza scarpe, ma che avevano capito l’importanza di creare le scuole, l’importanza di usare la testa e di promuovere la cultura e la conoscenza.

I progetti di ISP in Afghanistan vanno in quella direzione?

Sì, scuola e donne. Anche nei momenti più bui, le donne hanno fatto di tutto per studiare, per andare a scuola. Ed è per questo che i talebani non vogliono sostenere in alcuna maniera, anzi vogliono reprimere i giovani e le donne. Perché i giovani desiderano conoscere, studiare. E le donne, se hanno ricevuto un’istruzione e diventano poi madri, possono educare a loro volta i loro bambini… Rompendo quel circolo di fondamentalismo e chiusura su cui hanno sempre potuto fare leva gli estremisti e i signori della guerra.

Hai visto un Afghanistan di ieri e di oggi, un Afghanistan che è cambiato?

Le notizie che arrivano in queste settimane sono orribili. Il fondamentalismo che riprende piede, i Talebani che riacquistano potere, dei colloqui di pace fantoccio. Ma chi vive a stretto contatto con i giovani, conferma che in questi anni si è consolidato un tessuto forte, di coscienza e attivismo, nelle nuove generazioni.

Quello che ho visto arrivata per la prima volta nei campi profughi nel 2003 ammetto che mi ha sconvolto e disorientato. Per questo ho desiderato tornarci poco dopo, a ridosso del primo viaggio. E l’ho fatto per me, perché volevo capire meglio.

In questi anni, tornando regolarmente a visitare i progetti in tutto il Paese e le nostre organizzazioni partner, ho visto queste realtà che crescevano, e al contempo ho visto crescere i bambini che anno dopo anno ci riconoscevano, mi riconoscevano, come in famiglia. E ho visto quelle ragazze che crescevano, diventavano donne, si impegnavano per il loro Paese. E che assieme sono oggi la parte più bella, il meglio dell’Afghanistan.

Quale la condizione delle organizzazioni e delle donne coraggiose che sosteniamo?

Le “nostre donne” non sono rassegnate, non lo sono mai state, ma in questo momento stanno facendo un enorme fatica, perché camminano davvero su un campo minato. Quando ti viene impedito di poter parlare, denunciare, portare avanti il processo di cultura e diritti, è quello il momento in cui tenere duro, perché la gente che non sente più la tua voce non si allontani da te. Per questo dobbiamo aiutare queste donne a parlare, a tenere alto il volume della loro voce. Non vogliono essere compatite, sono donne straordinarie che stanno cercando una soluzione per il loro Paese. E parte di quella soluzione siamo anche noi, quel movimento che va verso di loro: Insieme si può, Cisda e tanti altri soggetti della società civile (diversamente dai governi o dagli eserciti che vanno lì solo per interesse e per arricchimento dei soliti noti, spesso i carnefici), che ci poniamo con trasparenza, con partecipazione vera per la vita delle persone.

Quale allora il senso, l’importanza dei nostri progetti in Afghanistan?

Io credo che i nostri piccoli progetti siano vitali e debbano in ogni forma continuare ad esistere e rinnovarsi. Sarebbe una sconfitta se non arrivasse più il nostro aiuto a RAWA, a SAAJS, a HAWCA, che fanno opere straordinarie ed efficaci non solo di aiuto concreto alla popolazione, ma di pacificazione, di maturazione delle coscienze, di divulgazione: da chi crea e segue progetti di sviluppo e autodeterminazione per gli esclusi (le escluse, in particolare) della società, a chi si impegna per la memoria delle singole vittime del terrorismo e della guerra, a chi appoggia le donne che cercano giustizia dal punto di vista legale, a chi cerca il cambiamento a livello istituzionale, a chi si prende cura della parte di emergenza umanitaria. Noi dobbiamo continuare a maggior ragione, adesso, che gli Stati Uniti e gli altri eserciti se ne andranno dall’Afghanistan e si rischia che a pagare il prezzo più alto siano ancora una volta le donne e la popolazione civile indifesa, che tanto desiderano futuro e pace.

Cosa sogni per il futuro di Insieme si può?

Sogno un’associazione fedele a sé stessa, ma che sappia rinnovarsi ed essere ancora una volta giovane, più giovane, elastica, piantata concretamente nel mondo di oggi. E questo dobbiamo farlo senza perdere i nostri valori fondanti, che hanno fatto la nostra storia. Che si riesca ad appassionare, a far venire alle nuove generazioni la voglia di conoscere gli altri.
Mi piacerebbe poi che Insieme si può, tutti noi con Insieme si può, prendessimo sempre più posizione, ci esponessimo: il che non vuol dire avere o sposare posizioni partitiche, ma dire la propria, esserci sui temi di oggi, avere una posizione… Quello sì, è sempre più importante.

Che cosa ha significato, cosa significa per te essere ISP?

Una delle cose importanti in cui Insieme si può mi ha accompagnato è stato l’aprirmi al mondo, al guardare gli altri mondi, al farmi coinvolgere.  È cresciuta una curiosità positiva verso l’altro, le persone. Così io e Olindo non abbiamo mai più viaggiato per andare a vedere le vetrine – o meglio: le vetrine sì, a volte, come espressione della cultura di un luogo – ma di ogni angolo del mondo abbiamo sempre cercato di conoscere la gente.