Uno a uno, nome per nome

Nel mese del “compleanno” dell’Associazione, non potevamo non intervistare colui che ha fatto nascere tutto 40 anni fa e che ancora oggi dedica ogni singolo giorno della sua vita a “Insieme si può…”: Piergiorgio Da Rold. Dopo il suo primo viaggio in Uganda nel 1982 ha deciso che il proprio impegno per gli ultimi doveva essere 365 giorni all’anno, e a 360 gradi, convinto che per fare ciò non poteva essere da solo. Ne è valsa e ne vale la pena? Dice di sì, senza punto di domanda.

Presentati brevemente.
Sono Fioretto Piergiorgio Da Rold, ingegnere elettronico e insegnante, da 41 anni impegnato con “Insieme si può…” nell’aiuto alle popolazioni soprattutto del Sud del mondo.

Come ti definiresti in tre parole?
Fortunato per il passato, disponibile per il presente, ottimista per il futuro.

Come definiresti ISP in tre parole?
Condivisione; coraggio, nel senso etimologico di “agire col cuore”; “con”, inteso come fare le cose “con”, insieme, non “per”.

Il 3 febbraio 1983 è il “compleanno” di ISP, data della costituzione del primo Gruppo. Normalmente chiediamo all’intervistato come ha conosciuto ISP, ma nel tuo caso non possiamo! Quindi ti chiediamo: come è nata l’idea di “Insieme si può…”?
L’idea di “Insieme si può…” è nata in Uganda, durante il mio primo viaggio nel luglio del 1982, quando mi sono reso conto che quello che veniva fatto per le persone in difficoltà, e laggiù ce n’erano veramente tante, tra fame, lebbra, guerra, mancanza di acqua e di istruzione… Quello che veniva fatto per loro era veramente troppo poco ed era legato a volte solo ad alcuni momenti dell’anno, come la Quaresima, il Natale o qualche emergenza che si sentiva in televisione. Io avevo visto che chi aveva fame aveva fame 365 giorni all’anno, e allora è nata l’idea di mettere in piedi un’attività che si occupasse 365 giorni all’anno di chi stava peggio di me, di noi.

Da dove sono nati il nome dell’Associazione, il sottotitolo “costruire un mondo migliore” e il riferimento ai 365 giorni?
Il nome è stato dato all’inizio, quella sera del 3 febbraio 1983 quando è nato il primo Gruppo abbiamo scelto il nome e lo abbiamo formalizzato nello statuto. C’erano due possibili nomi: “I care”, che è poi il motto poi di don Lorenzo Milani e che significa “mi interessa, mi sta a cuore”, ma non era ancora tempo di inglesismi per cui abbiamo pensato che era meglio dire “insieme si può” proprio con la constatazione che era già vero in quel preciso momento che mettendosi insieme si potevano fare delle cose che da soli era più difficile; era anche un auspicio, che a noi si sarebbero aggiunte tante altre persone. “Costruire un mondo migliore” invece significava allora una sfida, un’utopia, la una volontà di dire “facciamo qualcosa di buono per cambiare questo mondo che non sta andando troppo bene, e vogliamo farlo 365 giorni all’anno, in maniera continuativa, proprio come parte della nostra vita”.

Cos’ha fatto veramente scoccare in te la “scintilla” dell’impegno concreto?
Quello che mi ha “provocato” nel fare qualcosa di diverso, di nuovo e di più incisivo nella mia vita è stato l’incontro con dei lebbrosi in un villaggio in Uganda che si chiama Alelele. Lì ho fatto l’esperienza di sentirmi, in un certo senso, “ultimo nel cuore di Dio”, perché prima di me c’erano tutti loro: io ero sano, loro malati; io potevo tornarmene a casa a fare una doccia, loro la doccia la facevano solo quando pioveva; io la sera potevo andare a dormire in un letto con le lenzuola, loro le lenzuola le conoscevano solo nel momento in cui venivano sepolti proprio in un lenzuolo. Da lì è scattata l’idea di provare a cambiare qualcosa e fare in modo che non esistessero più situazioni del genere.

Nel 2023 ricorrono i 40 anni dalla nascita di ISP: per un essere umano sono gli anni dell’età adulta, della consapevolezza. In quale “fase della vita” è l’Associazione?
40 anni è una bella cifra, una bella età, in cui si possono già fare dei bilanci. Quelli sono disponibili sia in termini economici, dato che i soldi raccolti e impiegati per le persone più bisognose in questi 40 anni ammontano a 35 milioni di euro, che in termini di obiettivi raggiunti, con decine di migliaia di persone aiutate e soccorse, bambini, malati, donne, situazioni di emergenza come guerre, terremoti, alluvioni, ecc. È anche un momento di passaggio, perché i fondatori o quelli che avevano avviato i vari Gruppi ormai cominciano a sentire l’età o purtroppo se ne sono già andati, e non è facile riuscire a coinvolgere persone nuove in un impegno che, come dicevo prima, dovrebbe essere per 365 giorni all’anno. Bisogna reinventarsi le attività e le iniziative adeguandole ai tempi nuovi, sia come proposta per arrivare ad esempio ai giovani, cosa difficile anche se noi riusciamo a farla abbastanza bene coinvolgendo soprattutto le scuole e i gruppi giovanili dei Colibrì, che anche reinventandosi in un certo senso il modo con cui fare i progetti nel Sud del mondo, anche perché diventa sempre più difficile e problematico in questi anni trovare cooperanti che si impegnino a rimanere sul campo per un po’ di tempo.

E, come in ogni fase della vita, ci sono anche dei momenti più difficili che si alternano alle soddisfazioni. Davanti a questi hai mai pensato “chi me lo fa fare, le cose non cambieranno mai, lascio stare tutto”?
Sì, certo, tante volte, perché ci sono tanti in questi 40 anni tanti momenti difficili e problematici nella realizzazione di certi progetti. Devo dire che questa domanda me l’ero posta ancora nei primi viaggi, mi ricordo che di ritorno dal viaggio in Etiopia nel 1984, quando ero stato nei campi profughi e praticamente mi era morto un bambino in braccio, mentre stavo tornando a casa avevo scritto una poesia intitolata “È stato un errore” (che trovate a pag. 2 dell’Informa di febbraio) in cui sostanzialmente dicevo “che cavolo sono venuto qua a fare, meglio se me ne stavo a casa perché a questi qua ho portato un po’ da mangiare, ma non è che abbiamo cambiato la situazione, la gente continua a vivere nelle strade e c’è la guerra”… Però alla fine concludevo dicendo che era stato proprio un errore andare lì, ma mentre mi perdonavo ecco nascermi dentro la pazza speranza di saper sbagliare ancora così. Quindi sì, alla fine ne vale la pena, senza punto di domanda.

Cosa sogni per il futuro di “Insieme si può…”?
I sogni sono quelle cose che si rischia che al mattino svaniscano, o non si ricordano. Io ho delle speranze per quanto riguarda ISP: io mi auguro, e quindi anche sogno, che “Insieme si può…” continui ad essere quello che è oggi, cioè un’associazione che è attenta agli ultimi a quelli che hanno più problemi, ma un’associazione che è attenta anche ai singoli, perché molte associazioni come la nostra hanno grandi progetti, ma non riescono a raggiungere le singole persone. Io vorrei, io mi auguro, io spero, io sogno che ISP abbia la capacità di vedere gli ultimi non come una massa di persone, ma riesca sempre a incontrarli e a chiamarli uno per uno, nome per nome.

Per concludere, cosa significa per te essere ISP?
Impegnarsi per 365 giorni a 360 gradi, anzi, a 365 gradi, trasformando così il normale in straordinario!